L’uomo che sopravvisse all’attraversamento di un cumulonembo alto 13 km, tra fulmini, grandine e correnti ascensionali.

Era l’estate del 1959 e il pilota americano William Rankin stava sorvolando i cieli della Virginia a bordo del suo caccia, ad un’altezza di circa 15mila metri. Tale altitudine lo metteva al sicuro dalle nubi temporalesche che quel giorno si erano sviluppate nella zona. Com’è noto, i cumulonembi toccano al massimo i 13mila metri alle latitudini temperate. Rankin, come ogni pilota, volava più in alto per tenersi al sicuro da fulmini, grandine e correnti ascensionali che si sviluppano dentro tali nubi.
Accadde però che un’avaria del motore si manifestasse proprio mentre sorvolava un temporale di grosse dimensioni. Un blocco improvviso del motore, i comandi che non rispondevano più. Rankin si trovò nella condizione obbligata di catapultarsi fuori dall’abitacolo:
“La temperatura esterna sfiorava i -50 gradi “, riporta la sua testimonianza nel libro Cloudspotting di Gavin Pretor-Pinney (Guanda, 2006). “Forse sarei riuscito a sopravvivere al congelamento senza subire danni permanenti, ma come avrei reagito alla decompressione esplosiva innescata dalla quota di quasi 15 mila metri? E che cosa sarebbe successo con la tempesta che imperversava proprio sotto di me?”
Riflessioni che non ebbero il tempo di avere risposta: Rankin si gettò fuori dall’abitacolo grazie al seggiolino eiettabile. E quello che accade dopo ha dell’incredibile. Aperto il paracadute, in una situazione di totale oscurità, all’inizio le cose sembrarono mettersi discretamente. Ma ancora non era giunto nel cuore della nube, dove imperversava la tempesta. Dopo 2 minuti di discesa le condizioni atmosferiche peggiorarono drasticamente. Le impetuose correnti ascensionali che si formano dentro le nubi temporalesche gli impedivano di scendere di quota e anzi, lo riportavano verso l’alto.

“Mi si abbattè contro come un colossale maroso fatto d’aria, si avventò su di me con la brutalità di una palla di cannone e mi ritrovai trascinato sempre più su”, disse a proposito della burrasca di cui si trovò prigioniero.
Come se non bastasse, il corpo di Rankin iniziò a essere bersagliato dalla grandine e fu sul punto di perdere conoscenza. “Mi parve di essermi trasformato in un pezzo di carne sballottato in un congelatore buio e cavernoso”. I dolori per per via del freddo erano insopportabili, la decompressione gli faceva sanguinare gli occhi, le orecchie la bocca e il naso. Anche il ventre si gonfiò “come quello di una donna in avanzato stato di gravidanza”.

Infine, nell’incubo di questa caduta infinita, fu il turno dei fulmini: “Non li udivo, li percepivo sulla pelle… era un vero manicomio della natura”. Sconvolto e ormai quasi privo di conoscenza, Rankin si accorse che era uscito dal tunnel quando la luce iniziò a rischiararsi. L’atterraggio, con un paracadute malandato ma ancora funzionante, avvenne in un bosco di pini. Zoppicante ma senza fratture, Rankin raggiunse una strada vicina per chiedere aiuto.

Quando guardò l’orologio, si rese conto che la sua discesa era durata 40 minuti. In condizioni normali, ne sarebbero occorsi 10. Il cumulonembo lo aveva inghiottito e sballottato su e giù come una centrifuga, tra scrosci violenti di pioggia gelata, grandine, scariche elettriche. Rankin sperimentò sulla pelle tutto quello che accade all’interno di queste colossali formazioni di vapore. E miracolosamente avrebbe potuto raccontarlo.
Lorenzo Pini