“Non ci sono più le mezze stagioni” è un luogo comune, soprattutto nell’epoca del surriscaldamento globale. Certo, se a scriverlo è Giacomo Leopardi, è tutt’altro discorso. Sì, perché il poeta di Recanati annotava nei suoi Pensieri «i mezzi tempi non vi sono più.»

Leopardi non fu mai né un meteorologo (la meteorologia non esisteva ancora come scienza nel XIX secolo) né mai uno scienziato. Leopardi fu poeta –ma questo lo si sa-, filosofo –forse, il più grande filosofo italiano-, filologo e grande conoscitore. Studiò latino, il greco antico e l’ebraico da autodidatta, conosceva il francese, il tedesco, l’inglese, lo spagnolo oltre che il sanscrito (una lingua che risale al X sec a.C.).
E allora cosa c’entra il cambiamento climatico con la poesia e la filosofia?

Leopardi annota una considerazione, ossia che «i vecchi avvertono i rigori del freddo più di quanto non li avvertano i giovani, e molto spesso, credono che il clima, nel corso degli anni, si sia irrigidito in maniera costante e preoccupante, non tenendo conto però che, il “cangiamento” è avvenuto in massima parte nei loro corpi e non nelle “cose”.» (G. Leopardi, Pensieri, XXXIX)
Il senso di questo passo è allora presto chiaro: Leopardi intende spiegare che non sono le stagioni a raffreddarsi, quanto la sensibilità del corpo ad acuirsi «perché tanto sono fallaci i sensi del corpo nostro, che spesso ingannano ancora il giudicio della mente.» (Ibidem).

Leopardi, allora, fu certo ben lontano dall’essere un precedente storico della moderna Greta Thunberg, anzi: la sua non fu né più né meno che una riflessione filosofica che inquadra la tendenza, quasi sempre valida, che gli anziani sono soliti lodare il tempo della loro gioventù e condannare il tempo presente. Verso la fine del suo capitolo, Leopardi chiude così la riflessione quasi azzardando un raffinato sarcasmo: «L’Italia sarebbe più fredda oramai che la Groenlandia, se da quell’anno a questo, fosse venuta continuamente raffreddandosi a quella proporzione che si raccontava allora.»

Al di là dei luoghi comuni, però, gli anziani del tempo del poeta recanatese non avevano tutti i torti. Stava infatti concludendosi la Piccola Era Glaciale (PEG – in inglese LIA, Little Ice Age), ossia un periodo climatico in cui la temperatura media terrestre aveva registrato un rapido abbassamento. La PEG comincia intorno al XIV secolo quando i ghiacciai, che precedentemente si erano ritirati o erano addirittura scomparsi, riprendono ad avanzare e a riformarsi.

A partire dal 1850 la tendenza si inverte: le temperature ricominciano a crescere. Questo trend, conosciuto come surriscaldamento climatico è tutt’ora in corso, con gli effetti collaterali ormai noti. Ma questa è cronaca di tutti i giorni, ormai e “purtroppo”.
Se, come si dice, «la storia insegna», allora si accende una speranza: ovvio dire che non si può solo stare ad aspettare, ma si deve anche volere fermare il cambiamento climatico e preservare il nostro pianeta in salute prima che sia troppo tardi. Nulla è perduto, nemmeno i ghiacciai. There’s not planet B.
Andrea Calvi
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